Decidere con le famiglie
Coinvolgere genitori, parenti e amici nella tutela di minori in difficoltà
Familiari e operatori sociali seduti attorno allo stesso tavolo. Per decidere come agire nell’interesse di bambini e ragazzi. Tutti insieme. è il modello, innovativo, delle Family group conference. Uno strumento in più per scongiurare gli allontanamenti dai nuclei familiari.

Genitori, parenti e amici seduti assieme a operatori sociali attorno allo stesso tavolo. Gli uni di fronte agli altri, per decidere come aiutare il minore in difficoltà. Questo modello innovativo è uno strumento in più che può essere utilizzato nei percorsi con i minori in difficoltà. Un approccio che può favorire il dialogo e, quindi, evitare l’allontanamento di bambini e ragazzi dal nucleo familiare. Un’ultima spiaggia che rappresenta sempre un trauma. Comporta uno sradicamento innaturale dal proprio vissuto. Trascina con sé dolore e sofferenza. La famiglia — anche se «problematica» — è infatti un punto cardine nella vita di un bambino e di un ragazzo. Un riferimento forte che non può essere tagliato di netto. Ecco, quindi, che è stato pensato e sperimentato questo nuovo modello che intende coinvolgere e responsabilizzare le famiglie affinché trovino — con l’aiuto degli operatori sociali — il modo migliore per prendersi cura del minore.
La tutela dei minori in difficoltà è un tema caldo e delicato. I numeri possono aiutare a inquadrare meglio il fenomeno. Prendiamo, ad esempio, una regione significativa come la Lombardia. In base ai dati raccolti da Elena Cabiati dell’Università Cattolica di Milano (aggiornati alla fine di dicembre 2013), in questo territorio i minori seguiti dai Servizi dei Comuni sono più di 34.000. Si tratta di bambini e ragazzi interessati da provvedimenti del Tribunale per i minorenni (nell’85% dei casi si tratta di provvedimenti civili). Gli assistenti sociali che lavorano nei Servizi di Tutela Minori lombardi seguono, in media, 54 minori a testa, con punte massime di 62-63 minori per ciascun assistente sociale in provincia di Brescia e a Milano, e un minimo di 38 in provincia di Monza. Dati importanti, ma non sono solo questi minori a vivere situazioni di difficoltà familiari. Ci sono altre realtà che non arrivano all’attenzione del Tribunale, ma che hanno bisogno di essere seguite. In questi casi, se c’è uno spirito collaborativo tra famiglia e operatori, non intervengono i Servizi di Tutela, ma i Servizi socio-assistenziali dei Comuni.
In questi momenti delicati l’attenzione deve sempre essere rivolta al minore, per rendere la situazione meno dolorosa possibile. «Quando un bambino o un ragazzo entra nel circuito assistenziale — spiega Kate Morris, docente all’Università di Birmingham, intervenuta più volte ai convegni internazionali sui servizi sociali organizzati da Erickson a Riva del Garda — le decisioni che riguardano la sua situazione spesso rischiano di essere “sganciate” dalla sua rete parentale. Questo ha delle inevitabili conseguenze sul suo benessere emotivo e psicologico. La famiglia — prosegue Morris — costituisce un importante elemento di connessione nel portato culturale del minore, nella sua storia individuale e nella sua identità». Ecco perché può essere utile un cambio di rotta, coinvolgendo nel processo decisionale sul minore anche la famiglia o gli adulti più significativi a lui legati. Un modello — chiamato Family Group Decision Making — che affonda le sue radici in Nuova Zelanda, dove è stata sperimentata l’inclusione delle famiglie anche per rimediare agli interventi oppressivi messi in atto in passato nei confronti dei nuclei maori. Coinvolgere le famiglie, ascoltarle, renderle partecipi e artefici di quel che accadrà non significa, però, scaricare la responsabilità su di loro. Ci saranno sempre il sostegno e la collaborazione di operatori sociali, che dovranno essere capaci di valorizzare e far emergere i punti di forza delle famiglie, contenendo quelli di debolezza. Così, dialogando e lavorando assieme, molte famiglie potranno essere in grado di prendersi cura di se stesse, in collaborazione con i Servizi sociali. Ovviamente senza dimenticare il dovere di tutelare sempre i minori. Un approccio che ricorda quello del «fareassieme» applicato nella salute mentale, nato a Trento ma attualmente diffuso in diverse regioni italiane e anche in alcune città europee. Anche in questo caso, nella cura del paziente, vengono coinvolti i suoi familiari e vengono decisi assieme dei percorsi di cura condivisi. Un modo per responsabilizzare e rendere protagonista la famiglia e le persone care, fondamentali quando un paziente sta vivendo un momento di difficoltà.
Tornando al Family Group Decision Making, all’interno di questo modello generale è stata sperimentata una particolare forma di partecipazione della famiglia, chiamata Family group conference. Anche in questo caso è stata pioniera la Nuova Zelanda, seguita successivamente da altri Paesi come Gran Bretagna, Stati Uniti, Norvegia, Svezia, Canada, Sudafrica. Kate Morris spiega come funzionano. «Questo sistema viene utilizzato quando un minore presenta una serie di bisogni ai quali non si può rispondere senza riordinare le risorse in gioco. Le segnalazioni vengono inviate a un apposito coordinatore, che effettuerà una mappatura della rete del minore: dai parenti stretti alle persone più significative, in base al contesto culturale nel quale ci si trova.
A questo punto, il coordinatore preparerà tutti gli interessati perché si coinvolgano nel processo di programmazione. Si tratta di un delicato ruolo di mediazione e negoziazione. Ai professionisti viene quindi chiesto di fornire alla famiglia informazioni chiare rispetto alla valutazione effettuata e alle risorse da mettere in campo; ai componenti della famiglia viene chiesto, invece, di concentrarsi sui bisogni del minore e non sui disaccordi che ci possono essere tra gli adulti. Data, luogo e ora dell’incontro vengono poi scelti dalla famiglia, che viene lasciata a pianificare per conto suo, con tre compiti: decidere un piano di azione condiviso, organizzarsi per monitorarlo e pensare delle alternative se il piano originale non avesse successo. Alla fine il coordinatore incontrerà nuovamente la famiglia per verificare che si sia raggiunto un accordo e che il piano d’azione sia chiaro a tutti. Quindi, vengono fatti entrare i professionisti che dovranno accettare i principi e individuare le risorse necessarie per la messa in atto. Dopo l’incontro si entra nel vivo e inizia contestualmente la fase di attuazione e monitoraggio». «In questo modo — sottolinea Morris — la famiglia diventa il contesto dove si risolvono le difficoltà del minore e ha il diritto di essere aiutata da professionisti sociali che avranno un ruolo di facilitazione e supporto».
Questo cambio di paradigma può dare risultati importanti. Molte famiglie, infatti, hanno nella loro rete di parenti e amici delle persone desiderose e capaci di dare un contributo per aiutare a risolvere le difficoltà. Monitorando una serie di esperienze è emerso che le famiglie sono in grado di incontrarsi senza ripercussioni negative sulla sicurezza e il benessere delle persone coinvolte e hanno interesse a collaborare con gli operatori. Tirando le somme, è stato rilevato un aumento nella cura del minore da parte dei parenti e la percentuale di soddisfazione nei bambini/ragazzi e nelle famiglie è consistente. Ci sono, però, anche delle spine, come riporta sempre Morris. «Non tutti gli operatori condividono questo approccio. C’è, infatti, chi vede nei fallimenti del singolo individuo qualcosa di legato alle problematicità della famiglia nel suo insieme: dunque, per questi operatori, la competenza atta a risolvere le difficoltà deve essere quella del professionista, non quella dei familiari. Inoltre — prosegue — ci sono dirigenti e operatori cui risulta faticoso conciliare il modello della Family group conference con le preesistenti strutture decisionali burocratiche. Per qualcuno, il discostarsi dalle consuetudini operative viene sperimentato come una rischiosa sfida. Dunque, una parte di operatori è poco disponibile a investire in un approccio innovativo, che è percepito come senza regole e ad alto rischio, nonostante i dati ne evidenzino i risultati positivi».